Luca Pietro Nicoletti

Note di lettura

Luca Pietro Nicoletti

L’incontro fra Luciano Caramel e il lavoro di Armanda Verdirame avviene nel 1994, poco dopo che l’artista ha deciso di dare al suo lavoro una dimensione pubblica avviando un’attività espositiva continuativa accanto a una ricerca artistica matura, i cui risultati colpiscono il critico comasco, che nel giro di poco tempo fa acquisire una sua opera dalla Collezione d’Arte Contemporanea dell’Associazione Arte e Spiritualità di Brescia (poi convertitasi nella Collezione Paolo VI di Concesio). Qui il 21 ottobre 1994 approda Passaggio, uno scudo del 1992 di 60 cm di diametro in terracotta sostenuto da un supporto [inv. N. 369]. A dirigere quella raccolta, allora, era un’allieva di Caramel, Cecilia De Carli, che si stava già occupando dei rapporti fra le arti figurative e la sfera del sacro, e che giusto un anno più tardi avrebbe curato un importante volume sulla raccolta di scultura di quell’ente (Collezione d’Arte Contemporanea Associazione Arte e Spiritualità. La scultura, a cura di Cecilia De Carli, La nuova Cartografica, Brescia 1995, pp. 105 e 211-212). Un caso curioso, considerando che la ricerca di Armanda Verdirame non aveva espliciti connotati religiosi, per quanto in seguito troverà anche una via di adattamento del proprio lavoro a usi liturgici, come nel caso del tabernacolo realizzato nel 2000 in occasione dell’apposito concorso bandito per la chiesa di San Giovanni Battista e Giuliano a Sora (Frosinone).

Mancando un referente esplicito, la sua attinenza al tema della raccolta doveva essere di allusione spirituale non esplicitamente confessionale: un rimando a una dimensione altra, spirituale, arcaica e quindi intensa di eco ancestrali lontane.

Nei primi allestimenti di quella collezione, oltretutto, Passaggio era stata collocata accanto a uno dei maestri della ceramica novecentesca con cui Armanda aveva trovato la più intensa sintonia spirituale: Nanni Valentini era stato il maestro dell’incontro mancato, ma nella cui opera si era riconosciuta di più, e in cui era più acuto quel rapporto fra una messa in evidenza palese del segno della mano sulla materia e il ritorno a forme primordiali elementari, di cui la modellazione sottolineava l’aspetto arcaico e tellurico.

Credo che sia una buona introduzione, questa, per mettere a fuoco il lavoro di Armanda Verdirame nella lettura datane da Luciano Caramel, la cui presenza ha giocato un ruolo non trascurabile nel percorso dell’artista, entro il quale va ricordato, oltre ai testi per le mostre, l’invito a realizzare una installazione nella chiesa di San Francesco a Como 2009 in occasione di Miniartextil, curata da Caramel stesso. Una lettura documentata da due intensi testi del 1996 e del 2003 che testimoniano una continuità di interrogazione intorno al lavoro di Armanda e che si devono collocare in un punto particolare della bibliografia dello studioso. Gli studi sulla scultura, infatti, sono stati uno dei portati più originali della generazione di storici dell’arte nati negli anni Trenta ed emergenti negli anni Cinquanta: è il caso di Caramel come di Enrico Crispolti o, spostandosi su cronologie più remote, di Giovanni Previtali e Luciano Bellosi. Proveniendo da una formazione con maestri come Lionello Venturi e Roberto Longhi –o Gianalberto Dell’Acqua nel caso di Caramel- che avevano dato un grande contributo di svecchiamento alla disciplina, ma concentrando interamente i propri interessi sulla pittura, la scultura costituiva un campo vergine su cui mettere alla prova quegli strumenti ecdotici e affinarne di nuovi. In questo frangente sarebbe maturato, già alla fine degli anni Cinquanta, l’amore di Luciano Caramel per Medardo Rosso, della cui riscoperta moderna avrebbe avuto molti meriti, e che segnava una via di continuità fra recupero dell’Ottocento e ricerche visuali in corso all’insegna di una condivisa sensibilità verso la modellazione veloce e soprattutto verso un modo di mettere in evidenza la qualità plastica della materia manipolata.

Sarebbe anacronistico, tuttavia, rileggere le pagine di Caramel su Armanda Verdirame alla luce della lettura che lo studioso aveva dato di Rosso, per quanto questa, ad altre altezze cronologiche, fosse entrata in rotta di collisione con l’interpretazione di altre esperienze del presente: ne era un bell’esempio il testo scritto per Alberto Ghinzani nel 1966, in concomitanza con i primi saggi dello studioso comasco sullo scultore di Barzio. In questo caso, invece, bisogna inserire questi scritti nell’orbita di altre letture di ampio respiro della scultura contemporanea.

Il primo testo su di lei viene scritto nel 1996 in occasione di una grande mostra di Armanda presso i cortili dell’Umanitaria di Milano, ripreso poi due anni più tardi con l’aggiunta di un paragrafo finale dedicato ai “libri”, o meglio fogli di terracotta incisi dall’artista. Una mostra, questa del 1996, in cui Armanda Verdirame sfruttava le potenzialità della sua scultura a tradursi in ambientazione, realizzando un vero e proprio percorso e costruendo degli ambienti attraverso la disposizione scenografica delle proprie opere. Quattro anni prima, presentando la prima mostra personale dell’artista a Milano (1992), Riccardo Barletta ne aveva offerto una lettura in chiave “endopsichica”, dando di se stesso la definizione di «antropologo dell’arte moderna» e interpretando quelle opere alla luce di Jung, come nel caso di altri artisti di cui scriverà in quel decennio. Caramel, invece, parte da premesse diverse; quando parla di «una dimensione antica della scultura» si sta interrogando sul significato della ricerca plastica negli ultimi decenni, di come questa si fosse rinnovata rispetto alla dichiarazione di resa di Arturo Martini di fronte alla scultura come “lingua morta”, tenendo fede al mestiere ma rinnovandone il linguaggio. È questo il significato della «frequentabilità non archeologica» delle tecniche artistiche di cui si parla in questo testo: un ritorno a metodi antichi che non significa automaticamente una ritorno a stilemi tradizionali, bensì una reinvenzione della tecnica che contrata con la «inafferrabilità dell’elettronica» che si avverte sempre più presente persino nelle ricerche visuali, che era già al centro della riflessione di Barletta. Bisogna leggere queste riflessioni sullo sfondo di un saggio su La sfida della scultura che Luciano Caramel aveva pubblicato nel 1990 per una importante mostra tenutasi quell’anno alla Permanente di Milano sulla Scultura a Milano 1945-1990 (catalogo Mazzotta editore). In questo lungo e denso saggio, nel tentativo di individuare una linea coerente all’interno delle proposte della scena artistica, Caramel si soffermava a riflettere sul concetto di “inattualità” della scultura proposto da Flaminio Gualdoni in una mostra del PAC di Milano nel 1982. Un certo modo di fare scultura risultava “inattuale” rispetto a determinati parametri che tendevano a un azzeramento del linguaggio, proprio per una dichiarata «fiducia per il mezzo», ovvero per una modalità di ricerca «nei termini della tradizione, di rispetto dei valori fabbrili e dei materiali». Una via che non andava confusa, naturalmente, con una retrocessione a valori antiquati, quanto aver capito che il medium poteva fare «da supporto a interni cambiamenti di senso, a slittamenti sottili, metamorfosi, e anche a serrate proposizioni teoriche, peraltro non sovrapposte alla forma, ma in essa risolte. Dove la radicalità del modo corrisponde a quella del “significato”, in un gioco lucido, e spesso tutt’altro che lineare, di interferenze, corrispondenze e sostituzioni».

Per questo motivo, i testi su Armanda Verdirame vanno letti in relazione con quanto Caramel andava scrivendo di Valentini, di Amilcare Rambelli, persino di quanto aveva scritto anni prima su Giancarlo Sangregorio.

In tale prospettiva, scriveva nel 1996, nel lavoro di Armanda «si afferma un radicamento antropologico nell’originario, fecondando atti e materie con la pregnanza del simbolo primario». Questo «simbolo primario», tuttavia, non proietta il lavoro della Verdirame all’indietro, anzi lo proietta in una dimensione cosmica non molto distante dalle riflessioni che lo studioso stava compiendo in quel momento su Lucio Fontana, di cui, rimanendo alle occasioni più prossime ai testi in esame, per il catalogo del centenario della nascita che riuniva i contributi della mostra milanese, in più sedi, coordinata da Enrico Crispolti nel 1999. Una lettura in chiave astronomica di quell’opera, del resto, era suggerita dall’artista stessa che, stando all’incipit della presentazione per l’Umanitaria, avrebbe prima di tutto fornito allo studioso un plico di riviste di astronomia, come se queste fossero una fonte visiva per il suo lavoro. Per Caramel però si gioca anche un primo confronto fra le Colonne che l’artista ha presentato in quella sede e la famosa Colonna senza fine di Costantin Brancusi, che verrà ripreso anche da un’altra allieva di Caramel, Sara Fontana, in occasione della mostra di Armanda Verdirame insieme a Tiziana Priori alla Permanente di Milano nel 2014. Per l’artista milanese, così come per lo scultore romeno, la colonna non era un semplice elemento strutturale, ma indicazione di una aspirazione ascensionale che, nel caso della Verdirame, non mancava di un sottofondo esistenziale dato dalle rotture e fenditure nella terracotta: il frammento è dramma, metafora di vita che nasce e che comporta un atto violento. Non sarebbe passato molto tempo, a pensarci, prima della mostra curata nel 2001 da un altro suo giovane allievo, Giorgio Zanchetti, ancora alla Permanente, su Frammenti. La nostalgia dell’unità perduta nella scultura del XIX e XX secolo.

Ma per mettere a fuoco meglio il senso di questa lettura, merita tornare ancora un attimo al saggio del 1990 sulla sfida della scultura, quando Caramel esemplifica le ricerche di «chi punta a una terrena elementarietà, impastando l’argilla, assecondandone, nel darle forma, la naturalità». Si riferiva, in particolare, a Nanni Valentini; a Pino Spagnulo, tenendo conto delle ricerche di cui aveva dato conto nella grande mostra a Palazzo Reale, che aveva segnato il suo ritorno alla terracotta negli anni Ottanta; e alle resine di Alberto Ghinzani. Rileggendo quando scrive di Valentini risulta più chiaro anche qualche fosse il pensiero di Caramel sulla Verdirame: le creazioni di Valentini, infatti, «hanno l’immediatezza densa di spessore dei manufatti d’una umanità “primitiva”, cioè irrorata dalle linfe di una panica sensibilità, cosmicamente dilatata quanto puntualmente definita nei riti e nei ritmi dell’esistenza: ove c’è il sapore di una primordialità che non è riduttiva, ma il frutto maturo della coscienza, nell’uomo innata, della sua particolarità e universalità. Realtà primarie, entro cui preme il lievito dell’energia che il tutto vivifica, dove la mano è in presa diretta con l’anima e il gesto formativo è esso medesimo momento di cultura».

Da queste premesse parte anche il secondo testo, del 2003, più volte ripubblicato per intero o in estratti, dal titolo programmatico, che riassume gli assi portanti del discorso precedente e li puntualizza: Affondo interiore ed elevazione all’infinità dell’universo. In questa seconda sede Caramel chiarisce definitivamente l’inserimento della sua ricerca nell’alveo dell’informale, o meglio delle pratiche artistiche che, come l’informale ha insegnato, implicano un «coinvolgimento diretto con le tecniche e i materiali utilizzati». L’aspetto astronomico permane, ma è meno pregnante rispetto al testo precedente, per quanto gli sia dedicato un ampio spazio, che dalla costellazione di Orione arriva a chiamare in causa il chiaro di luna leopardiano, ma l’attenzione si sofferma soprattutto su quel «momento formativo, su cui non si riversa a posteriori un’ideazione preconcetta, ma entro il quale l’opera ha origine». Questa osservazione non è una semplice conferma di quell’afferenza ai modi dell’informale, ma è anche lo spunto per evidenziare l’aspetto rituale (e di conseguenza ancestrale)  del fare arte. La lettura di Caramel oscilla fra l’aspetto rituale e quello cosmico, identificati come i due poli intorno a cui Armanda Verdirame intreccia la propria ricerca. L’artista stessa, in fondo, offriva supporto a questa tesi con le proprie dichiarazioni, insistendo sull’uso di soli materiali naturali, dalla terra ai semi fino all’uso di soli pigmenti naturali per le colorazioni. Era comprensibile, dunque, come annota sempre Caramel, che il suo lavoro non subordinasse e non accantonasse “il naturale”: «piuttosto lo trascende nel tendere a una dimensione che lo comprenda come momento sostanziale di una totalità dinamica in continua trasformazione».

 

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